Oh Dio ca fosse ciaola

 

 

Metamorfosi, metafore e travestimenti, tra colto e popolare, nelle villanelle della Napoli rinascimentale sotto il

dominio spagnolo

 

Nel maggio del 1503 le truppe di Ferdinando il Cattolico consegnarono al dominio spagnolo Napoli, una delle più dinamiche  capitali  del  Rinascimento  europeo.  Accanto  ai  modelli  umanistici  proposti  nel  resto  d’Italia,  il  vivace temperamento  partenopeo  prediligeva  esprimersi  nelle  forme  improvvisate  e  disorganizzate  della  festa  e  del carnevale, della danza, del canto e dei gesti del teatro di strada. Da queste premesse Napoli sviluppò nel ‘500 un genere musicale originale che ebbe grande fortuna in tutt’Italia: la Canzone Villanesca o Villanella alla Napoletana, di cui nel 1537 si pubblicò la prima raccolta a stampa. In apparenza   non si tratta di opere di stile raffinato, ma di composizioni che si vogliono originate dalla rustica e salace verve popolare. In verità le tecniche compositive, di frequente,  scimmiottavano  una  ipotetica  insipienza  delle  regole  musicali  per  dare  un  colore  popolaresco  alla composizione,  soprattutto  quando  la  mano  dell’autore  era  quella  dei  più  ricercati  musicisti  dell’epoca  come,  ad esempio, Orlando di Lasso. La Villanella nasce cantata al suono dei soli tamburelli e delle castagnette (ne resta traccia nella tammurriata), poi si trasforma in espressione melodica accompagnata dal colascione, dal liuto, dalle tiorbe, chitarriglie e altri strumenti, sviluppando due modelli distinti: il primo plebeo e scurrile a forte contenuto sociale, il secondo più cortese e sentimentale.  I testi, in un napoletano a bella posta popolaresco - che nelle moresche abbonda di quel “parlare chiatto” superbamente adoperato dal Basile nel secolo successivo -,  usano il vernacolo anche come forma di identità culturale delle genti partenopee nei confronti del dominio spagnolo; in questo significato ideale, con le liriche che, in qualche caso, celavano doppi sensi anche a sfondo politico, si riconoscevano un po’ tutte le classi. La cosa dovette sembrare evidente al Viceré Pedro da Toledo che ordinò la chiusura dell’Accademia fondata dal Marchese Della  Terza,  mecenate  e  protettore  di  Orlando  Di  Lasso,  nata  “per  raccogliere,  studiare  ed  eseguire  le  Canzoni Villanesche alla Napolitana”. La Villanella con la sua ostentata semplicità, si esprime 

attraverso metafore, proverbi, doppi sensi erotici ed espressioni onomatopeiche. In molti canti è caratteristico l’uso, mutuato dalla favolistica, della trasformazione dall’umano al non-umano (animale o inanimato) per conquistare l’oggetto desiderato e poi ritornare alla condizione originaria una volta raggiunto il risultato. La bellezza melodica si accosta all’incantamento del continuo gioco di travestimenti, simbolismi e linguaggio cifrato del testo, rendendo la Villanella uno dei generi più originali e seducenti della musica del Rinascimento. Le strutture musicali erano basate su moduli che potevano essere assimilati alle composizioni degli autori di origine popolare, come le figure tra mito e leggenda di Sbruffapappa, Velardiniello o Masto Ruggero, e a quelle degli autori più titolati quali Gian Domenico il Giovane da Nola, Giovan Leonardo Primavera e lo stesso Orlando Di Lasso. Nonostante la fortuna che questa forma musicale ebbe anche fuori dai confini della sua città natale, con adepti tra i più rinomati musicisti del resto d’Italia, vogliamo circoscrivere la nostra attenzione alle Villanelle che videro la luce a Napoli e che più genuinamente ne rappresentino l’essenza.

 

ContrArco Consort

 

canto, viola da braccio rinascimentale, viola da gamba tenore, viola da gamba bassa, percussioni